Ci sono videogiochi che nascono sotto una buona stella, perché sono pubblicizzati tantissimo e presentati ancora di più all’attenzione delle masse. Perché ne pubblicano notizie ogni settimana – quando non ogni giorno – perché riescono a farceli adorare ed etichettare come “capolavori annunciati” anche se mancano mesi (quando non anni) alla loro uscita e devono dimostrare di essere, effettivamente, i giochi che pensiamo che siano: avete presente i vari Assassin’s Creed o The Elder Scrolls? Altri titoli, invece, escono in sordina, vengono giocati da poche centinaia di migliaia di curiosi, diventano un piccolo culto. Miracolosamente rientrano nelle spese di sviluppo e produzione, pertanto ne arrivano i sequel che migliorano e perfezionano il grezzo prodotto di partenza: è il caso di Infamous, action-adventure in terza persona con free-roaming e super-poteri “a la Marvel/DC Comics” annessi, esclusiva PlayStation 3 nella primavera 2009, con un mese di anticipo su Prototype, destinato al mercato multipiattaforma. Quasi esattamente due anni dopo arriva Infamous 2, che lancia la serie verso nuove vette di eccellenza. Fin dall’annuncio di PlayStation 4, nel febbraio 2013 si è sempre visto l’oggetto di questa recensione: doveva essere un gioco di lancio ma così non è stato. Slittato al 21 marzo 2014 Infamous: Second Son è finalmente approdato sulla nuova ammiraglia di Sony con un tam-tam mediatico senza precedenti per questa serie, trasformando “l’esclusiva Sony per la nicchia di fan affezionata” a il gioco che porta la next-gen nel tuo salotto.
Addio Cole MacGrath, benvenuto Delsin Rowe
Lungi da me fare qualsivoglia spoiler della (bella) storia che narra le vicende di Infamous. Quel che qui posso dire è che, al contrario di quanto giocato nei primi due capitoli, qui non impersoniamo più Cole MacGrath ma il misterioso, nativo americano di stirpe Akomish, di stanza a Seattle: Delsin Rowe. Come tutti i ragazzi della sua età, il ventiquattrenne Delsin vive nel mondo dei Conduit e dei super-poteri, sette anni dopo le vicende a cui abbiamo assistito in Infamous 2 (il finale buono, per essere precisi). E’ un mondo pieno di pregiudizi, paura e xenofobia, nei riguardi delle persone come Cole, cioè quelle dotate di poteri che gli esseri umani normali definiscono “problemi”. Il mondo è preda del Dipartimento Unificato di Protezione (D.U.P.) che tiene l’umanità nella morsa di una legge marziale che non lascia spazio a privacy, diritti e libertà. I Conduit (o Bio-Terroristi, come li hanno ribattezzati) sono ghettizzati, definiti terroristi, perseguitati, internati, soggetti ad esperimenti di ricerca e, spesso e volentieri, uccisi. La catena di eventi che porta Delsin a diventare “erede” di Cole MacGrath avviene durante i postumi di un incidente automobilistico in cui tre Conduit si danno alla fuga. Delsin scopre di avere anche lui un potere: quello di assorbire i poteri degli altri Conduit e poterli usare. E’ l’inizio della sua avventura alla ricerca di una capacità in particolare, che gli serve per portare la salvezza nella sua amata tribù di nativi americani.
Seattle come mai l’abbiamo vista
Lo sfondo degli avvenimenti di Infamous: Second Son è Seattle. Non si parla più di Empire City o New Marais, che erano metropoli fittizie e degne della migliore finzione di stampo DC Comics. La città in cui si agisce è vera, esiste, è grande, caotica e…bellissima da vedere e visitare. Tanto l’ambiente quanto i personaggi, sono realizzati con dovizia di particolari e a regola d’arte. Le animazioni facciali odorano, finalmente, di next-gen e non hanno nulla da invidiare al talentuoso lavoro a cui abbiamo assistito in L.A. Noire di Rockstar Games che ha imposto un nuovo metro di paragone su questo fronte. Effetti particellari, illuminazione e filtri grafici fino ad oggi sconosciuti al mondo console, sono usati e sfruttati nel migliore dei modi. Tutto è mosso ad una risoluzione di 1080 pixel verticali: la tanto febbrilmente richiesta FULL HD che anche in questa ottava generazione appare più come una chimera che uno standard è raggiunta e non fa una piega. Quel che è autentico mostro mitologico al pari di quello di Lochness è il frame-rate: questo parolone che fino al 20 febbraio 2013 nessuno conosceva veramente, che indica la fluidità delle immagini di gioco e che riassumerò qui come semplice “fluidità di gioco”. La fluidità di gioco è decente, non ottimale. Vi sono sporadici rallentamenti, da poter contare sulle dita di una mano nell’arco di una settimana di gioco, ma è giusto segnalare che – qualche volta – va sotto il livello di guardia per un battito di ciglia. Quel che mi ha convinto poco sono le animazioni delegate ai movimenti e ai gesti, talvolta troppo “retro” rispetto alle mirabilie promesse dalla nuova generazione. Le animazioni, in soldoni, sono buonissime durante le scene di intermezzo, ma perdono qualche punto in fase di gioco. A proposito di fasi di gioco, occorre onorare il merito degli sviluppatori, Sucker Punch, per aver imbastito tanta roba e di aver – di fatto – annullato un qualsivoglia segnale di caricamento (a parte quello di inizio gioco).
Chi osa vince ergo Second Son perde
Infamous: Second Son mette in bella mostra quasi tutti i muscoli di cui è capace la PlayStation 4 in termini di grafica ma sono certo che non siamo di fronte alla massima espressione dei contenuti. Grand Theft Auto V, su PlayStation 3 e Xbox 360, trasuda vastità da ogni pixel pur non vantandosi di Full HD e senza montare su hardware all’avanguardia. L’ultima fatica di Sucker Punch si presenta come un meraviglioso monumento al “more of the same” che tanto in voga andava nella settima generazione. In questa ottava, pare, gli sviluppatori non sanno fare altro al momento. Chi ha giocato i primi due Infamous e li ha finiti sa di cosa sto parlando: al di là di nuovi effetti speciali, nuovo protagonista, nuovo setting, ci ritroviamo a respirare a pieni polmoni quanto di meglio abbiamo già assaporato in (scusate se lo ribadisco) due episodi già pubblicati. Se la storia di Infamous: Second Son – soprattutto – e della serie in generale, strizza l’occhio al ciclo degli X-Men, portando all’attenzione dei messaggi molto maturi come quelli della diversità e della xenofobia, dall’altra ci riporta a fare cose già viste e già provate con i prequel, smorzando gli entusiasmi iniziali e le speranze di giocare qualcosa di vagamente innovativo. Non serve qualche missione secondaria reiterata in tutti e quindici i distretti di Seattle per convincermi che Infamous vince dove a suo tempo, un certo Assassin’s Creed, ha toppato. Perché qualcuno che gioca come me, che tende a conseguire tutti gli incarichi secondari mostrati prima di procedere con la storia, in giro per il mondo, esiste. E anche se non fossi obbligato da nessuno a farlo, tranne che dal mio proprio modo di “vivere” il gioco, non penso di essere il solo che dopo la terza o la quarta volta ad eseguire: 1) distruzione del centro di comando D.U.P.; 2) recupero di tutti i frammenti di potere; 3) conseguimento di tutte le missioni secondarie; 4) resa dei conti per liberare una volta per tutte il quartiere dai cattivi si sia chiesto dove, Infamous: Second Son, volesse andare a parare. Nulla da obbiettare sulle scelte narrative e (ribadisco consapevolmente) sui temi maturi trattati quali lealtà, senso del dovere, tolleranza, integrazione e le loro controparti negative. La storia tocca quasi tutti i cliché dei super-eroi e non delude in questo senso.
E’ una kill-app? Si, no, forse, non lo sa neanche lui
Infamous: Second Son si ammanta dei fregi di “killer application” o “gioco che giustifica l’acquisto di PlayStation 4” per tutti coloro che non conoscono i primi due Infamous o per coloro che hanno adorato quelli e ne attendevano il giorno di debutto per giocare nell’ottava generazione. Per tutti gli altri, più disincantati, critici e poco soggetti al tam tam pubblicitario, può risultare come un gioco estremamente curato sotto l’aspetto tecnico, ma “vecchio” al di sotto della sua carrozzeria fiammeggiante. La next-gen è arrivata, ma solo sotto l’aspetto visivo. Per giocare qualcosa di realmente nuovo dovremo pazientare ancora. E’ un gioco bellissimo, ma tanto – forse troppo – fedele alla sua tradizione. Il sottotitolo è “Second Son” ma per Sucker Punch siamo alla terza creatura realizzata: un’opera che più bella di così, secondo me, non possono fare, ma è lontana dai fasti di qualcosa che io possa definire “il gioco più bello dell’anno” sotto ogni aspetto lo si guardi.