Nonostante abbia ormai quasi 70 anni, il media videoludico è un universo tutto sommato giovane, dedicato ai giovani. E si sa, spesso la gioventù porta con se, oltre che immense cariche di energia e vigore, anche ingenuità e quella “spensierata ignoranza” che è sintomatica di chi, logicamente, non ha avuto tantissimo tempo a disposizione per conoscere il presente e, soprattutto, il passato. Ecco perché, in cuor mio, sapevo benissimo che dopo la pubblicazione del trailer di Death Stranding, ci sarebbe stato uno “straccia straccia” di vesti generale, con piagnistei commossi ed una sorta di celebrazione della “rivoluzione” quasi si trattasse di una apparizione sacrale. Sempre perché, da giovani, le emozioni esplodono e rimbalzano da un lato all’altro, spesso senza parvenza di logica. In sostanza, Death Stranding è per taluni un’autentica rivoluzione, un “game changer”, il tutto ricavato da un trailer che, contando sulle dita, ha mostrato davvero poco.

 

Prima che qualcuno mi descriva come un “hater” professionista e/o a caccia del quarto d’ora di celebrità (che ho già abbondantemente avuto), affermerò qualcosa di importante: Kojima è un genio. Limitatamente al settore videoludico, ma resta una delle menti più alte dell’industria. Sono ancora memore dello stupore che mi attanagliò quando scoprii da infante come battere Psycho Mantis in Metal Gear Solid, gioco che considero una pietra miliare dei videogame e, tutt’ora, pura avanguardia narrativa e meccanica. Detto ciò, il genio non dura mai troppo a lungo e finisce, quasi sempre, nel trincerarsi all’interno della propria “disumana” visione delle cose. Ecco perché, a chiare lettere, ho posto a più “addetti ai lavori” cosa avesse in loro innescato quei moti strabordanti di sorpresa e ammirazione il succitato trailer, confluiti in articoli lunghissimi che hanno analizzato centimetro per centimetro ogni immagine apparsa (guarda, i personaggi piangono…quel geniaccio di Kojima!).

Metal Gear Survive

Ebbene, nessuno ha saputo rispondermi. Anzi, i più mi hanno “consigliato” la lettura di questo o quell’articolo che, in linea di massima, non ha fatto altro che aumentare i miei dubbi. Dubbi che riguardano l’esaltazione di un gioco che al momento, oltre ad un nome altisonante e ad una geniale campagna marketing, non ha mostrato praticamente nulla. Anzi, qualcosa ha mostrato: una certa personalità nella direzione artistica e nelle scelte cromatiche e visual che, però, non è stata degnatamente sottolineata da quasi tutti gli articoli che ho letto (ma non li ho letti tutti, sia chiaro). Cosa traspare, dunque, dal trailer di Death Stranding? Molto poco: sembra un buon gioco, seppur meccanicamente sembri una sorta di evoluzione in salsa GTA di quanto già visto in Metal Gear Survive. Ci saranno dei mezzi di locomozione, ci saranno sezioni shooting, ci sarà la possibilità di utilizzare accessori di varia specie e di combattere a mani nude. E, qualche “critico specializzato”, ci ha visto una rivoluzione all’interno. Io ci ho visto solo un gioco che sembra promettente e basta e che, al contempo, non mi è parso poi così lontano da un RAGE 2 (che ho testato di recente). Sarà che non sono un critico specializzato.

Chi ha almeno 30 anni e ne ha passati una buona parte ad esplorare i meandri video-ludici, sa bene che spesso l’accostare “volti noti” del cinema a produzioni videoludiche non sia sempre un’accoppiata vincente. Personalmente, appena vedo il volto di un attore famoso ricreato ludicamente, inizio a sentire il mio intero ammasso corporeo fatto di colesterolo e peli superflui, cospargersi di piccoli pizzicorii fastidiosi. Forse perché, appunto, memore di tutti gli obbrobri che taluni publisher ci hanno sottoposto sperando che un bel faccino conosciuto ci creasse un’improvvisa amnesia sul concetto di “buono” e “cattivo”. Per questo, la qual questione in Death Stranding mi ha da subito urtato un po’, anche perché usare attori e volti noti nei giochi è una sorta di “easy win” teorica, soprattutto se si consente agli stessi di rivestire un ruolo piuttosto simile a quelli che occupano nell’immaginario comune. Se ho una faccia da duro che tutti conoscono come tale, non avrò bisogno di ordire un intreccio atto a far comprenderne la durezza: mi basterà piazzarlo dentro, anche a caso. Clint Eastwood è Clint Eastwood anche se immortalato in un negozio di peluche. Easy win.

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Mads Mikkelsen in “Death Stranding”

Ad esempio, per quel poco che si è potuto intuire dai video, Norman Reedus, attore attivo sin dagli anni ’90 ma salito alla ribalta con The Walking Dead, sembra svolgere un ruolo piuttosto simile a quello rivestito nella serie TV “beautiful-zombiesca”: in entrambi i casi, un esploratore duro e temprato, ma dal cuore d’oro. Per quanto sottile, lo stesso filo conduttore può esser notato anche per Mads Mikkelsen, attore danese che ha quasi sempre interpretato ruoli da “cattivo” o da “duro” nel mondo del cinema. Ebbene, dalle immagini, l’artista sembrerebbe ricoprire un ruolo non si dica da cattivo, ma quantomeno “oscuro”. In correlazione, ho guardato con piacere il film “Polar” prodotto da Netflix, dove il buon Mikkelsen interpreta il ruolo di un killer buio e taciturno, invischiato in una sporca faccenda colma di sangue. Insomma, nulla di diametralmente opposto dal “compito” che sembra rivestire in Death Stranding. Gli altri volti noti sembrano al momento secondari e solo il futuro ci dirà se effettivamente avranno uno spessore o saranno messi lì unicamente come richiamo per volatili (a livello emozionale, ovviamente).

Un’altra carrellata di genuflessioni idolatranti è stata indirizzata alle scelte di sceneggiatura di Kojima, il quale più volte si è espresso circa l’importanza che il gioco (e che lui stesso, in prima persona) da all’uomo e alla società, secondo il developer naturalmente portata a creare legami piuttosto che a distruggerli. Un pensiero profondo e maturo, segno probabilmente di un compiuto viaggio spirituale ma che, in sostanza, non brilla certo di originalità nonostante la devastante esaltazione ricevuta da taluni. Soprattutto, mi sarei aspettato che codesti taluni (la nostra “critica specializzata”) s’accorgessero del fatto che l’italica cultura, che spesso noi in primis bistrattiamo per prostrarci ad un continuo “copy/paste” internazionale, ne abbia già parlato abbondantemente in tantissime occasioni. «L’uomo è un animale sociale, le persone non sono fatte per stare da sole» diceva il nostro Seneca. Ed è uno di tantissimi esempi che,  sono certissimo, persone più colte e preparate potrebbero fare, stilando una lista infinita di autori e scrittori fondamentali che si sono espressi allo stesso modo sull’argomento. Quindi, riassumendo: pensiero profondo in un settore giovane e spesso emorragicamente investito da prodotti mediocri e senz’anima, ma “vecchio” e non particolarmente originale se si allargano le maglie d’analisi culturale.

Kevin Costner in “L’uomo del giorno dopo” (1997)

Secondariamente, anche il tema post-apocalittico, dell’errare solitario e il ruolo metaforico rivestito dal bambino, una sorta di portatore della luce e di un nuovo inizio di un mondo fratturato in tante piccole città e comunità, non è nulla di straordinariamente nuovo. Nella mia sterminata ignoranza, la qual cosa mi ha ricordato, oltre i vari Fallout, Metro ecc, anche il romanzo “The Postman” di David Brin. Opera letteraria successivamente confluita nel film “L’uomo del giorno dopo” interpretato da Kevin Costner nel ruolo di un sopravvissuto che, per puro caso, trova un’uniforme da postino pre-apocalisse e inizia a spacciarsi come tale, spargendo fra le genti disperate l’idea che esista ancora uno stato, una sorta di unità, una bandiera e una speranza (non un bambino, ma semplici lettere). Stessi temi, ambientazione piuttosto simile, protagonisti con pressapoco gli stessi obbiettivi. Anche in questo caso, una tela dipinta con colori di rivoluzione, ma che in realtà potrebbe essere “solo” un buon dipinto di un artista contemporaneo che si ispira visibilmente al passato.

Quanto sin qui detto, è il frutto di un piccolo flusso di coscienza scaturito dalla domanda che avete adocchiato nel titolo. Una domanda senza risposta per il momento, ma che funge da trampolino per una riflessione sulla rapidità, spesso ingenua ma alle volte riparo sicuro di secondi fini convenienti, con cui si usa il termine “rivoluzione” o si eleva allo status di assolutezza un qualcosa che, potrebbe esserlo sicuramente, ma che non ha di fatto dimostrato ancora nulla nel presente. Il fanboysmo e il sensazionalismo da click sono sempre in agguato e ormai endemia assodata, con l’obbiettivo recondito di mostrare l’assoluto anche quando, forse, non c’è. Detto ciò, la mia speranza da gamer è che Death Stranding sia davvero la rivoluzione che tutti decantano ma, per il momento, di rivoluzionario non c’è proprio nulla: c’è un buon gioco, potenzialmente vicino ad un capolavoro ma che, al momento, non è null’altro che un’ipotesi da verificare.

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