Mi trovo spesso a sproloquiare di videogame. E nei giorni scorsi, un “alterco” verbale è scaturito da una mia semplice affermazione: «Il genere soulslike non esiste, perché i Souls non hanno, nei fatti, creato nulla». Di lì, com’è lecito attendersi, una catastrofica cascata di improperi. Partiamo, però, da un concetto generale: non esistono, davvero, i generi videoludici. Così come, a trecentosessanta gradi, non esiste macroscopicamente il concetto di “genere” in ogni produzione artistica. El Guernica e il David sono due opere d’arte, fa nulla che siano state concepite con dei mezzi tecnici differenti, in epoche differenti ed in contesti sociali, politici ed economici differenti. Dunque, perché categorizziamo l’arte? Un po’ per paura (vedere paletti ovunque ci fa sentire sicuri), un po’ perché anch’essa è ormai puro capitalismo («voglio sapere cos’è prima di comprarlo»), un altro po’ perché ormai siamo abituati a concepire ogni cosa che ci circonda in prospettiva della sua utilità al nostro (non meglio specificato) benessere, anche quando non si tratti esattamente di un bidet o di una forchetta. Ma facciamo un passo indietro: i generi videoludici non esistono. O meglio, sono creazioni “eteree” utili unicamente a direzionare i dollaroni. Ma, nel concreto, se si decidesse di “raffinare” concettualmente il significato di “giocare”, ci si accorgerebbe che, indistintamente, è tutta una questione di apprendimento e intrattenimento. I videoludi, così come l’arte in tutti i suoi spaccati e le sue concrete espressioni, servono ad indurci al pensiero e, al contempo, ad “ammazzare” il tempo (che, intanto, ci ammazza anche lui. Ma per davvero, però).
I videogame sono tutte esperienze, sono tutti intrattenimento, sono tutti pensiero: anche quelli fatti malino, quelli perennemente in sviluppo, quelli gonfiati oltremodo tramite trailer irrealistici, quelli creati unicamente con lo scopo di inserirci all’interno le microtransazioni (a.k.a l’intera “scena” mobile). Anche il gioco meno apprezzato a furor di popolo, può dare qualcosa o “segnare”, seppur millimetricamente, la vita di ognuno di noi. E, prendendo spunto dalle mie (poco interessanti) vicende personali, potrei fare l’esempio di Babylon’s Fall: un gioco concepito non troppo bene, un po’ troppo sperimentale a livello artistico e piuttosto “lento” per le affilate papille gustative occidentali. Eppure, ci riversai parecchie ore all’interno, arrivando addirittura a fondare un micro-clan internazionale di una decina di persone con cui, nonostante l’abbandono definitivo del gioco (che, a breve, dovrebbe “scomparire” altrettanto definitivamente), ancora ho rapporti e dialogo. Ecco perché, ancora una volta, lo scriviamo: i generi videoludici non esistono e servono, solo, ad “avviare” al consumo. Potrei, a questo punto, non definire Babylon’s Fall una vera e concreta esperienza videoludica “piena”, nonostante il suo plateale fallimento economico? Ancora una volta: non esiste il genere videoludico, ma solo il significato intrinsecamente collegato alla sua intima esperienza.
Il “soulslike” non esiste?
Se proprio volessimo cercare l’ago nel pagliaio grosso quanto una città, potremmo definire tutti i giochi come d’azione (d’altronde, dobbiamo agire per poter giocare). L’altra suddivisione, razionalmente, sarebbe spaccare la stessa azione in due, in base al suo intrinseco dinamismo: concitata e lenta, in base alla velocità di input a cui il gioco ci costringe, concretamente, a reagire. Nonostante, con i moderni strumenti tecnici, i due sottogruppi siano spesso mescolati, essi in realtà rappresentano due concetti completamente diversi di gioco proprio perché, il loro più concreto incedere, porta per questioni concettuali, meccaniche e di convenienza ad una sensata diversità. Avventura e strategia sono, ad esempio, diversi. Diversi a livello di visuale, diversi a livello di meccaniche, diversi a livello più strettamente dinamico. Sono tanti, naturalmente, i parametri scostabili per andare, concretamente, a modificare l’esperienza in più punti: ma ciò, non toglie, che la radice di tutto porti al binomio succitato. Ecco perché, ragionando per grandi temi, trovo personalmente risibile, in ogni campo, la fretta “concettuale” di piantar paletti a iosa, spesso e volentieri inutili. Paletti utili unicamente per vendere, per darsi un tono, per darsi quell’auctoritas che i latini hanno inseguito disperatamente e con ogni mezzo per secoli. Una auctoritas che, oggi, vien elargita (da chi?) come se fossero buoni omaggio per il discount, in ogni campo. Ed è per questo che, quando sento parlare di soulslike, il presunto genere videoludico più in voga del momento, un po’ mi scappa da ridere.
Perché, ricollegandoci allo spiegone di prima: no, il soulslike non è un genere, ma una mera operazione di mercato. Un’operazione di mercato non voluta da From Software (che, in sostanza, ha semplicemente creato una sequenza di giochi di alto livello), ma dai tanti presunti giornalisti/critici videoludici ammalati di quell’odierna fretta di correre alle categorizzazioni. Inseguiti e/o “plagiati” da reparti marketing che, giorno per giorno, capiscono sempre meno del mercato a cui si rivolgono. Un’operazione commerciale con quel tanto di “pugnetta invisibile” (“i souslike sono per pro”) ai tantissimi tizi (il 90% di chi gioca al genere) che cercano nei videogame la sfida definitiva per poter mostrar, impettiti, una medaglia (?) al valore (quale? Le centinaia d’ore che hai investito per superare una singola meccanica artatamente difficoltosa?). Qualcuno, gentilmente, potrebbe dir loro che finire Dark Souls in 200 ore è un risultato… normale? E che per giocare ai Souls e compagni di merenda, servono due caratteristiche: tanto tempo libero e voglia di ingoiare sempre la stessa cosa? Molti sbigottiranno: «Ma che stai dicendo? Sei impazzito?». Può darsi, ma è così evidente: cambiare due parametri in croce (tra l’altro, esaustivamente importati da giochi molto noti e pre-esistenti), rispetto allo standard, non significa creare un genere. Oppure le tizie che danno consigli su come farsi bidet o i bellimbusti sui social che ti insegnano come spruzzare il profumo, dovrebbero esser trattati come intellettuali di prim’ordine. Invece, giustamente, vengono derisi e martoriati, intellettualmente parlando.
Una mattina, mi son svegliato… genere
Quindi, cos’è il soulslike?
Un’invenzione forzata, ma anche una comoda toppa, a posteriori. Poichè, nell’enunciazione videoludica creata (ad arte, in senso positivo) da From Software, vi sono delle semplici caratteristiche in grado, sostanzialmente, di far salire molto facilmente sul carro dei vincitori tanti producer e sviluppatori a corto di idee e che non amano rischi commerciali. Nell’inferno videoludico odierno, fatto di “endgame” più importanti del gioco stesso e del numero di ore totali dal peso specifico maggiore rispetto ad una buona narrativa (manco fossimo al discount di cui sopra), il genere correlato ai Souls è quello, sulla carta, più facilmente sponsorizzabile. Combattimenti lenti e pesanti, boss dalle meccaniche ultra punitive, morte “perentoria”, una sola modalità di gioco, trama assente o estremamente rarefatta (a tal punto che induce a domandarsi se le poche tracce narrative siano, semplicemente, un raffazzonamento casuale di storielle standard), modalità “New Game +” che, semplicemente, prende quanto sin qui scritto e lo aumenta, artificialmente, a livello “numerico”. Poche e semplici caratteristiche che, de facto, aizzano la “critica” a bollare immediatamente il titolo in esame come soulslike, concedendogli una comoda scaletta al bandwagon del successo. Caratteristiche che, allo stesso tempo, concedono all’ipotetico titolo una superficie vasta e profonda, almeno secondo i moderni canoni dei videogiochi. Poiché (ed è un trend sin troppo evidente), il presunto genere è da molti considerato “faro nell’oscurità” di un settore in crisi mistica da decenni, quello dei giochi d’azione ruolistica. Un faro, quasi una conditio sine qua non, quasi fosse ormai assolutamente imprescindibile l’avere meccaniche “soulslike” (e, più pacatamente, roguelike) per ogni gioco di ruolo. E addio all’intricata e amorevolmente ordita complessità di giochi come Mass Effect, dove si sudava nel combattimento ma ci si ritrovava a dover riflettere sulle scelte da prendere che, in concreto, avrebbero modificato l’intero corso degli eventi o quasi.
Ritorniamo sui binari: come detto in incipit, un genere è “definitivo”. Così come è “definitivo” un gioco che, a ragione o torto, lo crea. E vi sono diverse argomentazioni concrete che lo testimoniano. Nonostante, come già ripetuto, l’arte è un continuum dove inizio e fine sono obelischi “nebbiosi” di cui se ne ha un sentore a “pelle” ma che, al contempo, quasi mai sono concretamente visibili, un gioco che crea un genere è uno spartiacque. Esiste un prima ed esiste un dopo quel determinato titolo: basta prendere, come esempio, Wolfenstein 3D. Nonostante non fosse il primo gioco e sparatutto in tre dimensioni (il primo, secondo tante fonti autorevoli, è stato il mitico Battlezone uscito nel 1980), Wolfenstein ha, letteralmente, creato un genere. Ma ha anche creato un modo di intendere il gioco, non solo visuale ma anche concettuale e meccanico: ed è impossibile non affermare che vi sia un prima ed un dopo Wolfenstein 3D. Ed è altrettanto concreto dimostrare come il leggendario prodotto di id Software abbia imposto alcuni novelli paletti, andando a rimescolare le carte in un modo che, de facto, sarebbe impossibile “riconoscerle”. Perché, di lato, la grandezza di uno spartiacque, la si denota da una difficoltà intellettuale ex-post: ogni paragone con giochi precedenti ad esso, risulta forzata, “stretta” ed evidentemente imprecisa. Allo stesso tempo, molti diranno: «Ma è un gioco antico, oggi è più difficile creare un genere ex-novo». Totalmente vero: ed è anche questa un’altra freccia nella faretra della tesi che qui cerco di dimostrare, ovvero che già tutto è stato fatto e le differenze con i titoli di riferimento, specialmente a livello concettuale, sono pochissime o quasi inesistenti. E che quindi, ogni piccolo coltellino diviene spada a due mani: nei giorni del “tutto è già stato fatto”, ogni microscopi granello di personalità viene automaticamente glorificato come rivoluzione. Soprattutto se, a farlo, sono grandi case di produzione (sindrome di Stoccolma?).
Monster Hunter è il primo, vero soulslike
Discernendo da quanto affermato nel precedente paragrafo, potremmo vestirci ed operare quasi come un medico legale, quasi fossimo alle prese con una autopsia concettuale (perché si, se anche genere si trattasse, è ormai di già sulla via del tramonto: Elden Ring ha strizzato gli occhi ai classici rpg open world, segno che la formula Souls originale sia considerata, anche da From Software, vetusta). E, altrettanto concretamente, se prendessimo Dark Souls in esame, in una “scomposizione” intellettuale per assurdo, potremmo dividerlo in due parti distinte: combattimenti pesanti e difficili e caratteristiche roguelike (si perde tutto o quasi alla morte). Ma sono essi concetti nuovi, introdotti dai souls? Assolutamente no. E ancora: sono essi confluiti, quanto meno, in applicazioni meccaniche ex-novo create dagli appartenenti al genere? Anche qui, a mio modesto avviso, la risposta è negativa. Perché, è sin troppo evidente come Demon’s Souls, uscito nel 2009 e capostipite della saga, abbia attinto a piene mani da un altro grande (e generazionale, questa volta davvero) titolo giapponese, Monster Hunter, uscito quattro anni prima. Boss complicati da abbattere e dai pattern d’attacco specifici e dalla possibile evoluzione, armi con una “personalità” distinta, combattimenti lenti, difficili e governati dalla stamina, impossibilità di interrompere le combo una volta avviate. Un focus sul combattimento strategico e sullo studio del nemico che si ha di fronte: caratteristiche assunte a liturgia dalla serie From Software. Sono persino rintracciabili altre caratteristiche extra tipiche dei prodotti Souls nel titolo Capcom, come la suddivisione della mappa in macro-arene dalle caratteristiche differenti (Elden Ring ha semplicemente amplificato ancor di più questo concetto) e la presenza di elementi roguelike, seppur più tenui (molte missioni avevano un limite massimo di volte in cui si poteva “morire”, pena il fallimento della missione con annessa “emorragia” di item raccolti).
Certo, vi sono delle differenze: i Souls premono un pochino in più sull’aspetto ruolistico con una narrazione appena appena accentuata rispetto ad un classico Monster Hunter (che, comunque, ha sempre avuto una linea narrattiva, seppur essenziale). Ma, anche in questo frangente, resta un concetto di fondo: in entrambi i prodotti, v’è una voluta rarefazione della narrativa, in favore di un solidissimo e “rigido” gameplay. E per chi se lo stesse chiedendo: no, Demon’s Souls non è nemmeno il primo vero roguelike compiuto. Già negli anni ‘80 era facile rintracciare titoli che comprendevano la perdita di tutti gli oggetti causata dalla morte in battaglia, come il mitico Rogue. Oppure, volendo essere meno “arcaici”, basta “scomodare” la modalità hardcore di Diablo 2, di già esistente nel 1997. Caratteristiche fondanti “esterne”, quelle su elencate, che, a pié pari, diventano concettualmente e meccanicamente il sostrato dei Souls, senza però che il sentire comune lo riconosca davvero. E, se proprio volessimo essere ancor più “cattivi”, persino l’ambientazione e il design, probabilmente la caratteristica meglio riuscita della produzione From Software, pesca pesantemente da alcune delle più grandi opere manga giapponesi del secolo scorso, tra cui spicca enormemente l’immortale Berserk. Desolazione, brutalità, violenza, disperazione ed aberrazioni demoniache: è impossibile non notare i tantissimi punti di contatto, non solo concettuali ma fattivamente tecnici ed estetici, con quanto partorito dalla geniale mente del compianto Kentaro Miura. Il design di diverse armature e boss, le armi “sproporzionate”, la disperante oscurità che permea dai luoghi e dai mostri: tutto è stato visibilmente e pesantemente influenzato dal manga creato alla fine degli anni ottanta.
Il momento della riflessione
Dunque, a questo punto, un dubbio sorge: è corretto dare alla serie Souls il “merito” d’aver creato un genere?
La risposta probabilmente più corretta è “forse, no”. Quindi, urge a questo punto la creazione di una nuova etichettatura. O, più ragionevolmente, l’ammissione che l’impropria corsa ad una disperata categorizzazione (sia formale che tecnica), sia in realtà un miraggio, imposto dall’informazione di settore, per “dare un senso” al (meritato) successo commerciale dei prodotti From Software, e dai reparti marketing, che obbediscono alla religione delle parole chiave per ridurre al minimo la comunicazione (manco fossimo delle galline “maledette” da un reset cerebrale ogni 30 secondi). E che, questa imposizione, abbia creato un riflesso condizionato: auto-etichettarsi in questo modo, significa più o meno direttamente, “vincere” sfruttando la scia dei successi (meritati) di From Software. Perché, seppur non abbia a mio avviso creato nulla o quasi, c’è tanto merito nel creare una deliziosa pietanza usando concetti culinari tradizioanli. Ma non v’è nessun merito nell’affrettarsi ad auto-affibbiarsi etichette di comodo. Ciò, ed è evidente, sta di già condizionando la produzione di tanti giochi vista anche l’assuefazione, creata dall’indubbio valore della produzione della casa giapponese, di porzioni di videogiocatori sempre più ampi alla formula dei Souls. Quasi che, le succitate caratteristiche fondanti, siano divenute una premessa archetipica al genere: se non è come Dark Souls, allora non è un gioco d’azione ruolistica degno di nota. E sappiamo bene, storicamente, come le asserzioni assolutistiche siano l’alba del “male”.