Negli ultimi anni, il dibattito sull’inclusività nei videogiochi ha guadagnato slancio, portando a una crescente attenzione verso la rappresentazione di identità diverse e all’importanza di costruire mondi e personaggi capaci di rispecchiare la complessità del pubblico. Tuttavia, con l’arrivo di Dragon Age: The Veilguard, la questione ha sollevato non poche perplessità. Ci si interroga, infatti, sull’efficacia e sull’autenticità delle scelte narrative fatte dagli sviluppatori, soprattutto quando inclusività e rappresentazione rischiano di apparire come inserimenti forzati o, peggio, superficiali.
A complicare ulteriormente le cose, si percepisce un crescente divario tra le opinioni della critica videoludica. Mentre alcune recensioni – come quella di IGN US – assegnano al gioco un sorprendente nove, senza entrare davvero nel merito degli aspetti di gameplay o giustificare a fondo il punteggio, altre si spingono a definirlo “il miglior titolo di BioWare“. In contrasto, su altri siti, lo stesso gioco viene stroncato per la debolezza della scrittura e un gameplay considerato poco approfondito. Questo disorientamento nella critica lascia i giocatori incerti: la varietà di opinioni e l’incoerenza nell’analisi creano difficoltà a farsi un’idea oggettiva e distaccata del titolo.
Alla base di questa situazione sembra esserci una mancanza di parametri comuni all’interno della critica specializzata, che rende la forbice dei giudizi più ampia che mai. Ne risulta un terreno confuso, dove il giudizio sul valore di un gioco come Dragon Age: The Veilguard non è più solo una questione di gusti personali, ma riflette anche una profonda divergenza nelle aspettative e nei criteri di valutazione, rendendo difficile per i giocatori orientarsi tra opinioni contrastanti e definire un vero e proprio standard qualitativo.
Ma andiamo con ordine…
L’importanza dell’inclusività
Prima di tutto, ci teniamo a dirvi che stiamo giocando a Dragon Age: The Veilguard dal day one e sicuramente troverete una recensione più approfondita, come di consueto, sulle nostre pagine. Tuttavia, sentivamo il bisogno di sfogare tante perplessità, e soprattutto trattare l’argomento – criticatissimo dai famosi “paladini dell’anti-woke” – dell’inclusività all’interno della produzione BioWare. Ma, come dicevo, andiamo con ordine.
Il tema della rappresentazione nei videogiochi è oggi più rilevante che mai. È importante che questo medium offra spazi in cui tutti possano riconoscersi e trovare risposte, ma l’obiettivo di inclusività non dovrebbe mai compromettere la qualità narrativa o trasformarsi in una mera facciata. Se da una parte la possibilità di rappresentare diverse identità è un passo positivo, dall’altra il modo in cui viene eseguito può fare la differenza tra un’esperienza toccante e una sensazione di superficialità.
Le opzioni di dialogo in The Veilguard che segnalano chiaramente “scegliendo questa risposta sbloccherai il percorso Transgender” rischiano di trasformare un elemento significativo in una checklist da spuntare, compromettendo l’immersione. Invece di vivere la rappresentazione come parte naturale della storia, il giocatore si trova davanti a etichette rigide che appesantiscono la narrazione. E questo elemento traspare anche dalle scelte in termini di party, ossia dei personaggi secondari che ci accompagneranno nell’avventura.
Questa sensazione di checklist appare evidente, visto che sembra esserci proprio tutto nel nostro party, sia a livello di etnie sia a livello di identità di genere. Un “mischione” che, a conti fatti, non riesce a dare la giusta profondità a ciascun personaggio, molti dei quali finiscono per apparire come rappresentanti di categorie più che come personaggi veri e propri. La mancanza di caratterizzazione è a volte preoccupante, e risulta ancora più pesante in un titolo di questo genere, che dovrebbe poggiare molto sulla scrittura e sulla narrazione in generale.
Un aspetto critico è la mancanza di coerenza tra il contesto narrativo e le scelte che il giocatore è costretto a fare. In un mondo fantastico in cui la magia consente trasformazioni illimitate, l’introduzione di elementi di identità di genere deve essere giustificata e radicata nella trama, non presentata come un’opzione da attivare a comando. L’impressione generale è che, sebbene la rappresentazione di tematiche LGBTQ+ sia un passo positivo, debba essere sostenuta da una struttura narrativa solida e ben definita, altrimenti, il risultato è una narrazione confusa e poco profonda, che manca di realismo.
Titoli come The Last of Us Part II o Cyberpunk 2077 sono esempi di inclusività ben integrata, dove i temi affrontati non risultano mai imposti, ma si inseriscono organicamente nel contesto. In questi giochi, le storie personali dei personaggi si intrecciano con le tematiche sociali, creando un impatto emotivo reale. Al contrario, The Veilguard sembra mancare di questa coerenza, lasciando il giocatore con la sensazione di una narrazione incompleta e affrettata, priva della profondità necessaria.
Un’illusione di profondità: il retaggio di una natura live-service
Partiamo col dire che Dragon Age: The Veilguard, nelle sue prime 6-7 ore, si presenta come un gioco “scolastico” e, a tratti, mediocre nel suo mero design, mettendo in mostra una struttura e un gameplay che rivelano fin da subito le sue radici di titolo pensato come live service. Il gioco sembra procedere infatti per una sequenza lineare e rigida: corridoio-scontro-corridoio-scontro-boss, con ricompensa e ritorno all’hub centrale. È una struttura che, pur funzionando in contesti multiplayer o live service, in un’esperienza single-player risulta forzata e inefficace.
Una delle problematiche principali è la scrittura: qui non si parla solo di inclusività, ma proprio della qualità della trama e dei dialoghi, che si rivelano di una banalità disarmante. La storia e i personaggi tendono a ripetere fino allo sfinimento gli stessi concetti, cercando di sottolineare a ogni occasione la costante minaccia che incombe, come se il giocatore avesse bisogno di essere continuamente “addestrato” a percepire il pericolo. Questa ripetitività rischia di alienare chi gioca, riducendo drasticamente l’impatto emotivo della narrazione.
Sul fronte del gameplay, il combat system non è terribile, e anzi, funziona piuttosto bene in termini di pulizia e assenza di bug. Tuttavia, manca di profondità. Il sistema di combattimento è orientato verso un’azione più diretta, con una sorta di “pausa tattica” che consente di dare ordini basilari ai compagni, come attaccare un nemico specifico o utilizzare un’abilità. Ma questa tatticità è limitata a operazioni minime, ben lontane dalla gestione complessa e strategica di Dragon Age: Origins, dove era possibile dettare strategie e impartire comandi diretti ai companion. Qui, invece, ci troviamo davanti a un sistema semplificato, che appare quasi ridotto all’essenziale.
Le prime ore del gioco sono dominate da questa linearità stringente, senza nemmeno il supporto di missioni secondarie che possano variare un po’ l’esperienza. Solo più avanti le mappe si aprono leggermente, ma la struttura resta pesantemente ispirata al modello live service, e questo influisce negativamente sulla varietà del gameplay.
Se l’inclusività in The Veilguard doveva rappresentare un valore aggiunto, sembra essere utilizzata più come uno strumento di facciata per coprire una narrazione priva di sostanza. La rappresentazione dovrebbe arricchire la storia e i personaggi, ma qui rischia di essere percepita come una forzatura. I temi inclusivi sembrano quasi messi in campo per riempire vuoti narrativi, mancando di quella profondità e rispetto che meriterebbero. Il risultato è un prodotto che, pur non essendo tecnicamente difettoso, si rivela piatto e poco incisivo.
In sintesi, The Veilguard non è un brutto gioco, e sarebbe ingiusto dirlo. È un titolo pulito e privo di gravi difetti tecnici, ma soffre di una mediocrità diffusa che permea sia la narrazione che il gameplay. Anche se le cose migliorano leggermente andando avanti, è difficile dire che questo basti a renderlo un’esperienza appagante…
Concludendo…
In attesa della nostra recensione completa, Dragon Age: The Veilguard lascia una sensazione di amarezza, come un’occasione persa per BioWare di consolidare il suo retaggio nella saga. L’ambiziosa promessa di un RPG immersivo, in grado di tenere testa ai suoi predecessori, sembra essere svanita tra scelte di design poco ispirate e una narrazione che non riesce a far emergere il potenziale di una rappresentazione autentica. La qualità di un gioco non si misura solo dai temi che sceglie di trattare, ma soprattutto da come questi si intrecciano organicamente con la trama e il gameplay. Qui, però, è evidente una tendenza a privilegiare l’apparenza piuttosto che la sostanza, sacrificando i tratti distintivi che avevano reso memorabili i capitoli precedenti. Ci teniamo a ribadire che l’inclusività nei videogiochi è un tema fondamentale, che merita di essere affrontato con serietà e rispetto. Tuttavia, The Veilguard rappresenta un esempio di come non trattare questa questione: la rappresentazione non può ridursi a scelte di dialogo forzate, che finiscono per apparire più come una checklist che come parte integrante della storia. Solo una rappresentazione davvero integrata, che si manifesta con naturalezza nel mondo di gioco, può arricchire l’esperienza e rendere il medium uno spazio inclusivo e autentico per tutti, evitando di trasformarsi in un semplice strumento di marketing.
Per ora, nonostante manchino ancora parecchie ore alla conclusione del gioco, The Veilguard rimane distante dalle aspettative dei fan storici, lasciando l’impressione di un capitolo privo della profondità e dell’impatto che ci si aspettava da un nuovo Dragon Age.